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Encanto, un classico Disney che ci insegna a vedere la luce nel buio

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di Daniela De Filippis

Una luce. Siamo stati al buio per troppo tempo. Adesso abbiamo bisogno di luce. Gli esseri umani sono fatti per nascere e non per morire, diceva Hannah Arendt. Noi siamo fatti per la luce e non per il buio. Eppure, sappiamo anche che il buio esiste e può cadere sulle nostre teste in ogni momento. In questi tempi così duri ho citato spesso Franco Basaglia. Diceva che la cura consiste nel riuscire a fare qualcosa del buio. Bene, io penso che noi abbiamo bisogno di vedere la luce nel buio.

Sono le parole di Massimo Recalcati, noto psicoanalisa italiano, in una sua intervista rilasciata ad Huffington Post.

Risulta quasi inevitabile l’associazione con Mirabel, forse meno nota ma non meno efficace, protagonista del sessantesimo film della Disney, Encanto, che mostra di essere funzione scomoda ma necessaria per la sopravvivenza della famiglia Madrigal.

Il film racconta appunto la storia della famiglia colombiana Madrigal a partire dalla fuga da un conflitto armato che costringe Alma “Abuela” (nonna) Madrigal e il marito Pedro a fuggire dal loro villaggio. Nella fuga Pedro viene ucciso, ma Alma riesce a portare in salvo i suoi tre figli gemelli appena nati: Jiulieta, Pepa e Bruno. È da questo momento che la storia del trauma entra a far parte della famiglia, pur in termini di interdetto, di negazione del dolore.

Un miracolo infatti riesce a mantenere accesa la candela che Alma teneva in mano la quale viene incantata, mantenendo viva una luce nel buio. La nuova casa di nonna Alma cresce e impregna la famiglia di doni speciali, di “talenti”: Luisa è dotata di una forza straordinaria, Isabella di una bellezza che la rende perfetta, fino ad Antonio, il più piccolo della famiglia, che ottiene il dono di parlare con gli animali. Tutti i talenti sono messi a disposizione della comunità. L’unica a non ricevere nessun talento è Mirabel, l’antieroina, occhialuta, capelli arruffati, impacciata e dalle sopracciglia folte. A lei si accosta Bruno, di cui non si può parlare, allontanato dalla famiglia a causa del suo potere di leggere nel futuro, che rappresenta dunque per la famiglia la minaccia della perdita del controllo, bloccata in una paralisi temporale che tuttavia protegge dal mistero e dal non noto.

Come porta-sintomo o porta-parola della famiglia, Mirabel diventa la depositaria di quelle imperfezioni e fragilità che la famiglia Madrigal sembra non potersi permettere, ma al tempo stesso, sarà funzione dell’incontro con quegli aspetti di caducità, instabilità e fuggevolezza che rendono umani, necessari da attraversare per poter riaprire al legame e dunque ad una temporalità, nonché alla possibilità di poter parlare del trauma, di renderlo pensabile e dunque attraversabile.

Il film permette quindi almeno due direzioni di osservazione e di analisi: la prima apre ad un pensiero trans-generazionale, a testimonianza di quanto traumi non elaborati, sofferenze negate, dolori interdetti, possano corrodere dall’interno, ed essere tramandati di generazione in generazione, solitamente depositati in uno o più membri della famiglia.

La seconda permette di osservare trasversalmente il peso individuale delle aspettative, nonché di posizioni conservatrici a favore della storia familiare e della sua unica versione possibile, negando desideri individuali e possibili posizioni separative.

La pellicola di Jared Bush, Byron Howard, Charise Castro Smith e Lin-Manuel Miranda dunque è un bell’esempio di un processo trasformativo che porta dalla paura del crollo, della catastrofe, ad un processo trasformativo generativo di nuovi legami e dunque di futuro.

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